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Giulio Ferroni - NEGLI ULTIMI ANNI DI VITA, DANTE FORSE FU FELICE

Dante Alighieri si spense a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Quest’anno cade quindi il settecentesimo anniversario della sua morte. La città romagnola gli dedica tre mostre: “Inclusa est Flamma”, alla biblioteca Classense, “Le Arti al tempo dell’esilio”, presso la chiesa di San Romualdo, e “Un’epopea pop”, che aprirà a settembre al MAR. Anche se, naturalmente, sono previsti eventi in tutto il mondo.Ma perché il poeta si trovava proprio lì? E soprattutto: cosa l’aveva convinto a restare? A raccontarcelo è Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, che per seguire le tracce del poeta ha attraversato l’Italia e ha scritto un libro di oltre 1.200 pagine.

La Romagna è presente in tutta la Divina Commedia: basti pensare alla vicenda di Paolo e Francesca. E probabilmente i mosaici ravennati ispirarono alcune visioni paradisiache che si trovano alla fine del poema.

Se ne parla oramai da molti mesi e finalmente ci siamo: il 25 marzo si celebra non solo il Dantedì, e cioè la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri istituita dal Governo italiano, ma prendono anche l’avvio in tutto il mondo le celebrazioni per il settimo centenario della morte del sommo poeta. Sono previsti convegni, mostre e nuovi libri. Sarà davvero un anno speciale.Abbiamo incontrato per questa occasione Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, e autore di saggi fondamentali sulla letteratura italiana. Il suo ultimo libro è proprio L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della «Commedia» (La nave di Teseo, 2019): oltre 1.200 pagine in cui racconta tutti i luoghi della penisola in cui il poeta è stato o che cita nei suoi scritti. Visitati uno a uno, in un lungo pellegrinaggio durato tre anni. Insieme a lui ci siamo idealmente diretti a Ravenna. L’ultima città in cui Dante visse e dove compose i canti finali del suo Paradiso. Morì lì, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Ed è lì che è sepolto. Anche se i suoi resti hanno avuto varie avventure…

Caro professore, partiamo dal perché. Esiliato da Firenze, certo, ma con estimatori in diverse corti italiane. Avrebbe potuto scegliere, tutto sommato. Come mai finisce proprio a Ravenna, nel 1318?
È difficile dirlo, anche perché in Romagna Dante ci arriva lasciando Verona, dove regnava Cangrande della Scala. Vale a dire non solo un ghibellino, ma anche un uomo che il poeta ammirava moltissimo. Mentre a Ravenna trova il guelfo Guido Novello da Polenta. E lì evidentemente qualche cosa lo convince a restare. Forse il fatto che Guido Novello fosse a sua volta poeta? Attorno a lui doveva essersi raccolta una cerchia intellettuale che per Dante fu di conforto. E questo lo trattenne dal raggiungere il letterato Giovanni del Virgilio, con cui era in contatto epistolare dal 1319 e che lo avrebbe accolto volentieri a Bologna. Esiste poi una tradizione secondo la quale il poeta, dopo essersi stabilito a Ravenna, sarebbe tornato a Verona nel gennaio 1320 per una lettura della sua Quaestio de aqua et terra. Per quanto tenuta in chiesa, sarebbe avvenuta al cospetto dei membri più colti della corte scaligera. Ecco: neppure questo episodio lo convinse a tornare in Veneto. Non sappiamo dunque perché Ravenna, ma sappiamo che una volta scelta non se ne volle allontanare. Il fatto curioso, se si vuole, è che dopo Mantova, ricordata per forza di cose all’apparire di Virgilio nella Commedia, Ravenna è la prima città di cui Dante ci parla, con la perifrasi del V canto. Lo fa per bocca di Francesca: «Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace coi seguaci suoi». Dante finisce lì dove aveva letterariamente cominciato. Tout se tient. Una coincidenza che sarebbe piaciuta a Borges.

Francesca, appunto, che insieme all’amato Paolo è protagonista di una delle vicende più memorabili del poema.
Una vicenda memorabile che è frutto della straordinaria inventiva dantesca. Noi non abbiamo documenti che ci testimonino la tragica vicenda dei due amanti: certo, la racconta Boccaccio, e si sarà sedimentata in una certa tradizione orale, ma niente più di questo. Per cui non possiamo dire di preciso come Dante sia venuto a conoscenza dei fatti. Possiamo però essere certi che l’invenzione principale del canto in cui compaiono, e cioè che l’innamoramento tra Paolo e Francesca s’inneschi dalla lettura delle vicende amorose di Lancillotto e Ginevra, sia tutta dantesca. Come andò tra i due, infatti, solo loro potevano saperlo… Non certo una terza persona. Voglio però ricordare che da giovane Dante forse Paolo lo incontrò davvero, a Firenze, dove il riminese era approdato nel marzo del 1282 scelto da papa Martino IV come capitano del popolo. Non sarebbe la prima volta che una memoria biografica innesca in seguito il comporre in versi. Basti dire che nel Casentino Dante conobbe una figlia di Ugolino.

Ravenna è la prima città che compare nel poema. Dante ci trascorre gli anni finali della sua vita e verosimilmente ci compone gli ultimi tredici canti del Paradiso. Ancora una volta tornando a materia ravennate…Nel XXI canto del Paradiso troviamo san Pier Damiani, che era nato effettivamente a Ravenna, per quanto sia sepolto nella cattedrale di Faenza. Come si cita anche san Romualdo, ravennate vissuto prima dell’anno Mille, nel canto successivo. Senza dimenticare che già nel Purgatorio Dante ricordava la Pineta di Classe. Segno che a Ravenna e nelle zone limitrofe c’era passato anche prima di stabilircisi, probabilmente diretto in Veneto nel primo anno del suo esilio. Ma al di là dei personaggi citati, Ravenna è fondamentale perché il suo patrimonio di mosaici probabilmente si sedimenta nel poeta, che di lì attinge per certe immagini paradisiache. Ravenna era allora un piccolo centro, che contava attorno ai 7mila abitanti, e le architetture bizantine erano ben conservate. Dante doveva conoscerle.

Torniamo all’inizio. Alla prima domanda. Non sappiamo perché Dante approdi a Ravvena, pure così presente nel poema, ma sappiamo che desidera rimanerci. Forse anche perché, in fondo, è uomo diverso negli ultimi anni di vita? Meno politico e ancor più poeta?
Forse sì. A Ravenna Dante dovette avere attorno a sé un cenacolo intellettuale che sarebbe bello ricostruire, perché di fatto lo conosciamo solo per cenni contenuti nelle sue opere o comunque in maniera indiretta. Ne faceva parte il notaio e poeta, amico anche di Petrarca, Menghino Mezzani. Ma gli altri? Tra di loro Dante non aveva di certo perso il proprio prestigio, se è vero che Guido Novello da Polenta lo invia per un’ultima ambasceria a Venezia: una missione a cui il fiorentino adempì al meglio, ma che gli fu probabilmente fatale, perché durante il ritorno, passando attraverso le zone paludose di Comacchio, contrasse la malaria. Di certo, però, a Ravenna aveva trovato anche una dimensione altra. Come uomo e come poeta. Tanto che nella seconda Ecloga, pur citandolo sotto veste pastorale, indica esplicitamente a Giovanni del Virgilio che il suo motivo per rimanere in Romagna è Guido Novello. Il loro legame doveva essere davvero forte. Secondo Boccaccio, alla morte di Dante degli ultimi tredici canti del Paradiso non si conosceva l’ubicazione. Li avrebbe ritrovati in una nicchia, grazie a un sogno rivelatore, uno dei figli. È una storiella che racconta in seguito anche Foscolo. Al di là del fatto che sarebbe bello sapere di preciso quando li compose, contengono una visione di Dio per il tramite della letteratura che dovette essere pacificante per Dante. Per il tramite della Commedia era andato oltre il cielo, pur bellissimo, della volta del mausoleo di Galla Placidia.

Mi dà l’estro, in conclusione, per passare da una nicchia a una... cassettina. Vale a dire quella con i resti mortali di Dante. Che hanno avuto molte avventure, nei secoli.
Si comincia attorno al 1519 o 1520, quando Leone X, della famiglia Medici, vuole i resti trasferiti a Firenze. E questo in un momento storico in cui, in realtà, era Petrarca a giganteggiare, mentre Dante era conosciuto senz’altro più in Toscana che nel resto d’Italia. Mentre i frati si affrettavano a nascondere le ossa, Leone X viene colto provvidenzialmente da un malore improvviso e muore. Di quello che accadde nei secoli dopo si sa poco. Le ossa tornano in vista in epoca napoleonica e poi vengono nascoste il secolo successivo con l’arrivo dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, per preservarle.Oggi c’è chi favoleggia di estrarne il Dna e così conoscere meglio la fisionomia del poeta. Francamente però è impossibile dire, dopo tutte queste vicende, di chi siano quei resti. Come qualche dubbio sollevano le ceneri scoperte nella biblioteca Centrale di Firenze, che sarebbero giunte lì durante la riesumazione d’epoca napoleonica. Ma la domanda è un’altra: a cosa serve questo accanimento? E a cosa serve che Firenze cerchi a tutti i costi, da secoli, di avere quei resti? Dante ci sarebbe voluto tornare nella sua città, sì, ma per come dice nel XXV canto del Paradiso, e cioè coronato come poeta. Non è avvenuto. Ora riposi dove si trova.

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